Si può parlare di censura quando i media non tutelano la verità nell’informazione e scavalcano la volontà popolare? Quale libertà di stampa è davvero in pericolo?
Il 24 gennaio 2010, esattamente a mezzanotte e un secondo, l’emittente venezuelana RCTV International ha cessato le sue trasmissioni via cavo. Si conclude così, tra polemiche ed incognite, una vicenda iniziata nel 2002.
Nell’aprile del 2002 la coalizione anti Chávez, con a capo Pedro Carmona, diede vita ad una manifestazione per reclamare le dimissioni del presidente democraticamente eletto Hugo Chavez. Federcámeras, l’influente sindacato CTV ed i partiti dell’opposizione, forti dell’appoggio economico – e non solo – degli Stati Uniti, portarono a termine il golpe.
Il governo eletto fu nuovamente legittimato nel luglio dello stesso anno, dopo una giornata di scontri e disordini, grazie alla volontà popolare che reclamava il ritorno di Chávez alla guida del paese.
Nel periodo del golpe, però, un altro attore si impone all’attenzione internazionale: i media.
In particolare Venevisión – una delle più grandi emittenti venezuelane e la più popolare del paese – diffuse false informazioni per fomentare la rivolta e sostenere le forze anti Chávez, coinvolgendo anche la Cnn con dichiarazioni rilasciate dalle alte sfere del governo Carmona.
E anche la discussa – e ormai zittita – RCTV International si schierò senza riserve in favore dei golpisti. La totale mancanza di un punto di vista imparziale nell’informazione faceva parte del piano.
Il pomeriggio dell’11 luglio scoppiò uno scontro violento tra la folla in agitazione – abbandonata a se stessa dopo essere stata aizzata da alcuni membri dell’opposizione – ed i sostenitori di Chávez. Il bilancio fu di circa venti vittime, tra morti e feriti.
Su nessun mezzo di informazione venezuelano è possibile trovare tracce di questi eventi.
La tensione mediatica era tutta protesa a legittimare l’insurrezione militare e la conseguente caduta del governo di Chávez. Anche a costo di falsificare, montare e intercettare ogni notizia destinata alla popolazione e all’opinione pubblica internazionale.
I più sembrano aver dimenticato il ruolo di RCTV – così come di Venevisión e del canale all news Globovisión, grande avversaria del governo Chávez – nel colpo di stato del 2002. Quindi i più sono rimasti turbati da quanto avvenuto nel 2007, quando l’emittente abbandonò le trasmissioni via etere, ufficialmente a causa della scadenza del contratto che concede le frequenze, contratto che lo stato può decidere di concedere ad un altro network. La più alta Corte venezuelana ha confermato le ragioni del governo.
La verità è che RCTV partecipò in modo determinante al golpe.
Andres Izarra, manager di produzione fino all’aprile 2002, era contrario al colpo di stato a tal punto da rassegnare le dimissioni, per non macchiarsi di complicità. In seguito e dinanzi all’Assemblea Nazionale, Izarra dichiarò che, a partire dal giorno in cui la situazione precipitò, gli fu formalmente ordinato da Marcel Granier – proprietario di RCTV e di un’altra quarantina di emittenti – di non far passare alcuna notizia su Chávez o sui personaggi a lui vicini. Risultato? I notiziari di RCTV si limitarono a diffondere la notizia delle dimissioni del presidente Hugo Chávez, quando in realtà era nelle mani dei golpisti.
I cartoni animati riempirono il palinsesto televisivo nel giorno in cui milioni di venezuelani scesero in piazza pretendendo il ritorno al governo dell’uomo che avevano eletto.
Una troupe di giornalisti irlandesi bloccati per caso in Palazzo Miraflores – il palazzo sede del governo – ci ha lasciato una rara testimonianza di quanto avvenne: il documentario “La rivoluzione non sarà teletrasmessa”.
La bilancia delle proprietà delle emittenti radiotelevisive venezuelane pende del tutto verso i privati. Secondo i dati forniti dall’Osservatorio Internazionale sui Media, quasi tutti i mezzi di informazione – non solo televisione, ma anche radio e giornali – sono di proprietà privata. Il mercato televisivo è quasi completamente controllato da quattro emittenti, ovviamente private: RCTV, Globovisión, Venevisión e Televen. Questo almeno fino ad oggi.
Su 81 emittenti televisive, 79 (97%) sono private.
Su 709 emittenti radiofoniche, 706 (99%) sono private.
Su 118 testate giornalistiche, 118 (100%) sono private.
L’informazione non è solo nelle mani di privati, ma, nella maggior parte dei casi, è apertamente contraria al governo di Chávez. Situazione bizzarra e forse paradossale in uno stato dove il governo sembra essere supportato da più dei due terzi della popolazione totale.
È ancora l’Osservatorio per i Diritti Umani ad offrire una prospettiva diversa. Nel 2002 riferisce: “Lungi dal fornire un’informazione onesta e veritiera, i media in gran parte cercano di provocare il malcontento popolare a supporto dell’ala estremista dell’opposizione”.
Certo è che RCTV ha seguito imperterrita la sua strada: oltre all’appoggio ai golpisti, ha rifiutato di trasmettere le “catene televisive” – comunicazioni di interesse nazionale delle varie istituzioni dello Stato, i messaggi più frequenti sono quelli che illustrano le principali azioni politiche del governo – contravvenendo alla legge venezuelana in materia di responsabilità sociale degli operatori radio e televisivi, pur sapendo di andare incontro a severe sanzioni.
Non è escluso che l’emittente abbia cercato un pretesto per ristrutturare l’attività, di certo danneggiata dal passaggio alle sole trasmissioni via cavo, con meno ascolti e meno inserzionisti pubblicitari.
La posizione del governo, comunque, non è contestabile se prendiamo in considerazione lo stato dell’arte dell’informazione in Venezuela.
Più preoccupante è la chiusura di 34 emittenti radiofoniche nell’agosto del 2009, ufficialmente sempre a causa della scadenza dei contratti per le frequenze, ma verificatasi in concomitanza alla discussione di una nuova normativa su giornali, radio e televisione. Normativa che prevede sanzioni severe per chi diffonde notizie dannose per gli interessi dello Stato.
Non dimentichiamo che il Venezuela si colloca al 124° posto (su 175 paesi) della classifica relativa alla libertà di stampa stilata annualmente da Reporter Sans Frontieres, segnale difficile da ignorare e che evidenzia la fallacia del sistema e la precarietà dell’equilibrio democratico nel paese.
In Argentina si sta verificando una situazione simile, seppure con fondamenti storici differenti, permane una netta lotta tra grandi gruppi editoriali e governo.
I protagonisti, in questo caso, sono la presidentessa Cristina Elizabeth Fernández de Kirchner – eletta nel 2007, capo del Fronte per la Vittoria, fondato assieme al marito e che incarna l’anima di sinistra del peronismo – ed il gruppo Clarin – a capo di diverse testate, di un canale televisivo e di tre emittenti radiofoniche – notoriamente antiperonista e maggiore impresa editoriale dell’Argentina.
La campagna del gruppo editoriale sarebbe tesa a demonizzare il governo e a portare avanti una cospirazione che dovrebbe portare alla destituzione dell’attuale governo.
Un emendamento del 1983 alla legge nota come 22.285 – adottata durante la dittatura militare del 1980 – ha ridimensionato l’ingerenza dello stato sui mezzi di comunicazione e permesso la nascita di grandi concentrazioni private.
La tensione tra il governo ed i mezzi di comunicazione – anche in questo caso ci troviamo di fronte a percentuali molto alte di emittenti e giornali di proprietà privata – rimane forte, ma si stanno verificando dei progressi, almeno in campo legislativo. Una legge impedisce la concentrazione dei mezzi di comunicazione in mano a pochi individui.
L’Argentina è al 47° posto della classifica di Reporter Sans Frontieres.
C’è da porsi una domanda: in un sistema in cui i mezzi di informazione sono del tutto controllati da pochi e ricchi cittadini è possibile parlare di tutela della libertà di informazione?
E poi quanto è legittimo, per un governo, porre alcuni organi di stampa nelle condizioni di non poter perseguire il fine della protesta o della denuncia sociale?
Se c’è, qual è il confine della libertà di informazione?
Il punto, in paesi come Argentina o Venezuela, è far fronte ad una situazione politica di non facile interpretazione, con in ballo interessi internazionali, sotto la sfera dell’influenza statunitense, dimentichi – a volte – della spinta verso l’integrazione regionale e verso una maggiore e reale democratizzazione di stampa e tv.
Quando si parla di libertà di espressione e di stampa generalizzare è impossibile e farsi un’opinione molto difficile, soprattutto non potendo vivere la situazione dall’interno.
Cadere nello stereotipo di presidenti dittatori e oscurantisti sarebbe imperdonabile, ma non lo è interpretare con coscienza dati obiettivi che ci permettono di percepire meglio parti della realtà.
* Francesca Penza si occupa di America Indiolatina per il sito di “Eurasia”